A cavallo tra il mese di Agosto e Settembre, quando l’Estate cede ad un clima più fresco e temperato, le campagne del centro Sicilia si animano di varie attività lavorative. Si gustano i frutti maturi, come i tipici fichi d’india, inizia la vendemmia, le mandorle hanno preso il posto dei loro profumati fiori e si aspetta che le olive, giovani e verdi, siano pronte per essere raccolte.
E’ un periodo durante il quale l’atmosfera muta, generando piogge che ricolmano di acqua i terreni resi aridi e secchi dal temuto “stiddazzo”, nome che, nel dialetto locale, indica con disprezzo il forte sole durante i mesi estivi, foriero di aridità.
La fine della bella stagione è, però, secondo le antiche credenze, anche il tempo di un’altra minaccia: i temporali. Capaci di distruggere i raccolti, frutto di tanti sacrifici e fatiche, a questi fenomeni atmosferici, i contadini, fino al dopo guerra e oltre, associavano la figura malvagia della Dragunara o Dragunera, fenomeno che secondo il Prof. Malfa, studioso di Piazza Armerina, «può essere interpretato o come un flagello scatenato da maghi “tempestari” per malevolenza nei riguardi di un gruppo, di una città o di qualcuno, a cui si vuole guastare il raccolto o può essere la trasformazione di una “magara”, una “dragonessa”, donna dall’aspetto terrifico, legata al “drago” ovvero al demonio».
Questa credenza di spiriti maligni atmosferici è molto antica ed è legata in maniera indissolubile con la vita dei contadini, i quali erano abituati a scrutare il cielo e la natura, costruendo una loro filosofia orizzontale e valutando il loro sistema cosmologico in funzione dei loro bisogni e, naturalmente, dei raccolti.
Era possibile scacciare la minaccia della Dragunera?
Una testo del poeta piazzese Pino Testa, in vernacolo galloitalico, narra un tipico episodio durante il quale l’agricoltore si trova ad affrontare la Dragunera:
A DRAGUNERA
Nivuli p’santi du l’vanti,
n’riav’nu
a rr’doss’da ‘Chirca u Gadd’,
e m’nazzav’nu
a fauda mànca du pais’.
Annintra trunava.
“Aost aost, cav’ d’invern’!’’
murmuria u massèr,
mèentr’ lest’, lest’
rr’ccugghieva ‘ncannadi d’ fi
‘ncrucchiului du so.
‘N f’ros’ vent murmuri ava
e straluzziava g’n’ streddi ‘nsciuri
e ‘nzavanàva, ‘nfriulava
a chirca du c’press’antich’.
‘Ntronu, ‘nlamp, na saitta
squartarianu l’aria
nu frattemp’ ch’ na dragunera d’egua
nurbava e ddavariava u pais’,
l’orti, bosch’ Banningh’ e Mangongh.
U celu ca terra
s’aveanu propria ‘ncuggiait’!
“Nivula, n’vuledda
Vattinni a Gruttascura,
ccà nun c’è vigni a vinnignari
né lavuri di tagghiari!”
rr’c’tava a v’gnera
menz’ d’ porta e porta da stadda,
e ca fauzzigghia,
fasgeva crosg’ p’ tagghier’ u temp’.
Valli a capì costi arcani cosi!
A dragunera, a mangh a mangh staggiava
e scum’gghiava cozzi…vaddoi
e a oggi a oggi
l’azolu prufonn du celu.
Ora…’ngiaun’ so d’tramuntana,
fasgeva facciareddi
e sciuava fraschi;
rrocchiuli ‘mp’nnui
e curnutava na rrosa centufogghi,
u bauch’ e a troffa u bas’l’co.
Sp’rdù e bancoi bancoi
l’om zz’rcava airi e babalucci.
Dragunera che provoca un temporale, incisione d'epoca (da V. Malfa, 1998) |
I versi del Testa descrivono i gesti di un rito che, con ogni probabilità, era scrupolosamente osservato dai contadini di una decina di anni fa, il cui principale gesto consisteva nel ‘tagliare’ il cielo (tagghier’ u temp’) con un arnese, ad esempio la piccola falce (fauzzigghia). In base ad altre testimonianze, durante questo “scontro”, l’officiante del rito, di solito la donna di casa, recitava, con vigore d’animo, precise litanie, come la seguente:
Quandu la dragunera pi lu munnu iva
cuntrò Gesù e Santa Maria
ci dissinu: “dragunera unna vai?”
“vaiu arbuli a pillari
e lavuri a stradicattari”
Gesù ci dissi: “vattinni di na valli oscura,
un ci canta né gaddu e mancu luna,
pi lo nomu di Gesù chista cosa non sia più,
pi lo nomu di Maria dicemu na Ave Maria”.
Quando la “dragunera” per il mondo andava
incontrò Gesù e Santa Maria
i quali le chiesero: “ dragunera dove vai?”
vado a pillare (spezzare) alberi
e le coltivazioni della terra ad estirpare”
Gesù le disse: “ vattene dentro una valle oscura,
ove non vi canta gallo e neppure la luna ( si vede ).
Per il nome di Gesù questa cosa non esista più,
nel nome di Maria recitiamo un’Ave Maria” (Trad. V. Malfa, 1998).
La nenia veniva ripetuta tre volte, facendo un segno di croce verso il temporale con un coltello dal manico nero o una falce, come se, come detto, lo si volesse tagliare per allontanarlo.
Testo a cura di
Flavio Mela
Bibliografia
MALFA V., Maghi, streghe e malìe nel cuore di Sicilia, Enna, Editrice Il Lunario, 1998.
TESTA P., P’nz’ddiadi: poesie in galloitalico piazzese, Piazza Armerina, AGS, 2006.
Nessun commento:
Posta un commento