"Il Castello Barresi di Pietraperzia. Una storica leggenda" di Veronica Riccobene
Per chi giunge a Pietraperzia o per chi se ne parte, la prima e ultima visione da cui ne rimane rapito è il grandioso rudere del vecchio castello Barresi-Branciforte. Il castello sorge su di una rupe calcarea del Terziario antico (50-60 milioni di anni fa), collocato a metri 549 sul livello del mare. La rocca su cui sorge il castello fece parte fin dall’età del Bronzo di una fascia di fortificazioni di cui si conoscono quelle di Capodarso, Sabucina Gibil Gabib, situate sulla sponda sinistra dell’Halicos (Salso). Nel caso di Pietraperzia si può dire con certezza assoluta, grazie ai ritrovamenti archeologici venuti alla luce nei pressi del castello, che le prima fortificazioni risalgono al periodo siculo. Il luogo ove sorge il castello fu fino dai tempi più remoti luogo fortificato dai Siculi prima, Greci poi com’è testimoniato dalle numerose tombe sicule che si trovano scavate nella roccia sottostante. In seguito fu luogo fortificato per Cartaginesi e Romani ed infine per Bizantini, Arabi e Normanni.
Con l’occupazione dei Normanni in Sicilia, il fortilizio saraceno (Ribat) che i conquistatori trovarono dovette essere la tipica fortificazione di frontiera di non scarsa importanza. I Normanni la restaurarono e verso il 1091 la affidarono ad Abbo Barresi, subfeudatario della famiglia Aletamica.
I Barresi erano venuti in Sicilia al seguito dei Normanni e dopo la conquista della Sicilia ottennero vastissimi possedimenti com’è dimostrato dai moltissimi diplomi.
Durante la conquista normanna della Sicilia la resistenza del musulmano Benavert, signore di Castrogiovanni (Enna) minacciò seriamente la sicurezza dei conquistatori a causa dell’insicurezza delle vie interne di comunicazioni. Fu perciò necessario ai Normanni migliorare la difese dei castelli che si trovavano nell’interno ed in particolar modo quelli posti a guardia delle più importanti vie di comunicazioni, questi infatti si trova a guardia della valle del Salso a nord e del Braemi a sud, ed il suo potenziamento è riccamente documentato.
Parte delle mura di cinta del castello sono ancora oggi visibili in diversi punti attorno al castello come nella strettoia di via Principessa Deliella, dietro la chiesa Matrice, lungo il muro meridionale dell’ex convento dei Carmelitani, davanti all’ingresso del castello.
Il castello restaurato da Abbo I Barresi riesce a meravigliarci ancora oggi per la sua saldezza e tecnica muraria testimoniata da diversi muri che hanno sfidato i secoli, come quelli del “Mastio”, della “Corona del re”, delle bastionature nord e sud.
Moltissimi viaggiatori vennero a visitarlo descrivendone la bellezza. Il primo a scrivere del castello fu il geografo arabo Abu Allah Muhammad detto Edrisi. Edrisi ci parla di una preesistente costruzione romana situata ove sorge il castello attualmente. Questa sua affermazione, sia pure vaga induce a pensare che “la cittadella romana” potrebbe essere situata al di fuori del perimetro attuale del castello.
Da alcuni documenti s’è potuto rivelare che il perimetro del castello originariamente racchiudeva un’area di circa 20.000 mq. Le mura avevano uno sviluppo di metri 1.130 ed erano alte in alcuni punti, oltre 4 m . Lungo di essi si elevavano diverse torri e bastioni di cui non è rimasta traccia, ad eccezione dei resti della Corona del Re, della Torre Quadrangolare dell’ingresso ( andata distrutta per far posto al serbatoio dell’acqua potabile nel 1938). Si dice che “la lunghezza del castello era di palmi 452 (m. 120), l’altezza era di palmi 122 (m. 29,56) senza contarvi lo spessore delle mura”. Il Ballari dice che l’area del castello era di mq. 12.600, cosa in verità assai più verosimile alla realtà.
Una leggenda vuole che le stanze del castello fossero 365, quanti sono i giorni dell’anno; elevato su quattro piani, quante le stagiono dell’anno e dodici torri tanti quanti sono i messi.
Riguardo alle 12 torri possiamo disporre di elementi probanti solo per nove di queste, tra cui ricordiamo la Torre Corona del Re, la Torre Quadrangolare, la Torre del Bastione( su di queste torri fino al 1900 vi era stato collocato un gazzebo ricco di sculture ed altri ornarti dove i signori del paese d’estate andavano a “prendere il fresco”). Si può costatare, tramite vecchie fotografie del lato nord, che le finestre sono disposte su quattro piani, ecco perché “quattro stagioni”. Ora, se consideriamo le finestre, esse sono in numero di 44 su ciascun lato; ad ogni finestra probabilmente venne fatta corrispondere una stanza; moltiplicando per quattro, i lati del castello, otteniamo 176 stanze. Ora se consideriamo anche il numero delle stanze con affaccio sui cortili interni, otteniamo in totale 362 “stanze” circa tante quante vuole la leggenda. A queste stanze sono legate molte delle vicende storiche come la morte del Marchese Matteo Barresi ( il Marchese venne ucciso dal figlio Gerolamo per motivi banali), il tentativo di avvelenamento da parte di due servi di Donna Dorotea Barresi, la morte di Don Pietro Barresi colpito da un fulmine, leggenda vuole, mentre osservava le stelle.
Collegato ad esse sono anche alcune leggende troppo lunghe da raccontare, ma una delle più note è quella delle “Tre dame marcia e vinni”. Questo racconto, tra storia e leggenda, è il caso proprio di dire “ si cunta e ssi rraccunta…”. La storia di queste tre sventurate donne fu un fatto realmente accaduto durante il regno di Federico II di Svevia (1194-1250), ma si svolse a Palermo e non a Pietraperzia. I fatti narrano che le tre donne furono portate sotto buona sorveglianza da Napoli a Palermo ed erano le mogli di Teobaldo, Francesco e Guglielmo Sanseverino. Questi tre nobili fratelli, abbandonata la causa di Federico II di Svevia si erano uniti alla causa del papa Gregorio IX. Fatti arrestare dal re furono bruciati vivi. Non pago di tanta vendetta si sfogò sulle loro mogli e sui figli che fece portare a Palermo e rinchiusi nelle carceri del regio palazzone morirono d’inedia e nessuno sentì più parlare di loro. Nel 1550, il Viceré don Ferdinando de Vega (1549-51) , nel far restaurare il palazzo reale di Palermo, gli operai scoprirono sotto la “Torre rossa”, dove stavano i prigionieri, i cadaveri delle tre donne.
Un illustre cittadino pietrino, Antonio Tortorici, racconta così il fatto delle “tri donni marcia e binni”: “A Pietraperzia cc’è un castiddu anticu, ca ’u fabbricare li Saracini. Sutta lu castiddu cci sunu tanti cammari quantu li jorna di l’annu. Na vota tri donni vutru scinniri ’nti stu suttirraniu e accumminzaru a camminari. ’Nti sti cammari cc’era lu lazzu ppi nun si pirdirisi nuddu, e li donni cu na manu jiavnu tininnu lu lazzu, e cu l’autra jivanu tininnu la cannila. Mentri ca taliavanu na cosa, un sacciu socch’era, ardiru lu spacu, e si pirsiru a mizzu li cammari, senza putiri nnesciri cchiù; e pir chissà misiru a li tri donni lu nnomu di li tri donni marcia e bbinni , pirchì caminavanu e cci abbinni stu fattu”. In altri racconti popolari v’è la variante che le donne nell’entare nel castello legarono il bando d’un gomitolo di lana al battente del portone d’ingresso ed un malintenzionato lo recise facendo perdere così le tre donne nei sotterranei.
La casa Barresi si estinse con la morte del principe Don Pietro Barresi nel 1571. La proprietà del castello passò alla casa Branciforte dopo il matrimonio di Donna Dorotea Barresi, sorella di don Pietro Barresi morto senza figli, con Don Giovanni Branciforti, Conte di Mazzarino; rimase in questa famiglia fino alla morte di Donna Stefania Branciforte (1605). Donna Stefania avendo sposato Don Giuseppe Lanza, Duca di Camastra, il castello passò alla casa Lanza col principe Don Pietro.
Nel 1812 Caterina Branciforte concede al comune di Pietraperzia l’uso dei piani cantinati dell’edificio come carcere mandamentale, tale utilizzo durerà fino al 1906. Nel 1820, durante i moti il castello viene saccheggiato e privato degli infissi, arredi e delle armi della grande armeria. Nel 1837 alcuni locali vengono adibiti a lazzaretto in occasione di epidemia. Nel 1838 il terremoto provoca seri danni alle struttura. Nel 1896 il castello viene assalito durante la rivolta dei Fasci dei lavoratori per liberare i detenuti. Nel 1898 si ha lo sgombero delle carceri. Nel 1910 il castello viene nuovamente utilizzato come lazzaretto nel corso di una epidemia di vaiolo. Nel 1912 una commissione tecnica del Genio Civile di Caltanissetta consiglia agli ultimi proprietari, i Lanza di Trabia, l’esecuzione di restauro che non sono stati mai realizzati. Nel 1938 vengono costruite all’interno e a ridosso del castello, le strutture del serbatorio idrico comunale, provocando un notevole danno architettonico con l’abbattimento di alcune fabbriche antiche e nel 1941 della grande torre. Il maestoso Castello, fino ai primi del 1900, si era mantenuto quasi del tutto integro, poi la colpevole incuria delle autorità competenti lo ridussero a poco più di un rudere. Senza contare, naturalmente, l’opera vandalica degli uomini che negli ultimi decenni hanno scavato dappertutto rovinando strutture murarie, stucchi e affreschi. Solo verso la seconda metà degli anni ’80 si è finalmente intervenuti con lavori di restauro che hanno consentito la scoperta di ambienti e mura prima nascosti permettendo una più chiara dell’edificio e impedendo il crollo di altri locali. Quello che rimane e tuttavia degno della massima attenzione, trattandosi di uno dei maggiori esempi di architettura castellana della Sicilia.
1 commento:
Ciao bel pezzo! Adoro i castelli e anche io sono siciliana. Da un po' ho iniziato a costruire un mio spazio sul web. Se vuoi puoi dare un'occhiata, si accettano consigli :-D
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